Acqua ad Assisi

Assisi in piena estate: un forno!
Quella estate degli anni settanta eravamo lì con un  gruppo numeroso, allegro e accaldato di lupetti e coccinelle, che  non sono  animali ma piccoli scout sotto i dieci anni.
Per farli riposare un po’ ed evitare il colpo di calore decidiamo di portarli in un ambiente accogliente e amico che conoscevamo bene, la Cittadella, un complesso di edifici, giardini, padiglioni destinati ad ospitare  pellegrini, convegni, ritiri spirituali.
All’ingresso ci accorgiamo che si sta svolgendo un convegno di una specie davvero speciale di persone: I Focolarini.
E’ il momento della pausa, tutti sono usciti all’aperto, ognuno ha una targhetta sul petto con la scritta “Mariapoli” e il proprio nome, ognuno inalbera un sorriso serafico, ognuno si rivolge ai vicini che non conosce con un  “Benvenuto, da dove vieni?” tutto dolcezza e accoglienza.
E’ un tipo di gente che conosciamo, sono delicati e gentili e noi temiamo  che la nostra orda li strapazzi.
Io che sono la capa di tutti  mi incarico di fare le opportune raccomandazioni.
Ci affolliamo tutti attorno alla fontanella, abbiamo sete, i bambini scalpitano, li blocco con uno sguardo severo.. ci sono prima i focolarini!
Infatti sono lì prima di noi: quello più vicino alla fontana riempie un bicchiere di carta, lo porge con un sorriso al vicino il quale ringrazia e lo porge con un sorriso al vicino il quale ringrazia e lo porge con un sorriso al vicino….
Uno dei miei bambini mi guarda e con una notevole faccia tosta mi dice
“Ma vedi: loro non hanno sete!!!”
Non riesco a dargli torto e dò il via.
I bambini, uno dopo l’altro mettono la testa sotto la fontana e bevono, bevono, si bagnano.. e i focolarini, sempre serafici, li guardano sorridendo dolcemente e aspettano.

 

Non mi avranno

Delle volte quando penso agli episodi della mia infanzia che mi sono rimasti impressi ho la sensazione di avere la sindrome di Davide Copperfield, tanto mi sembrano adesso lacrimevoli e drammatiche le situazioni nelle quali ho vissuto da bambina e da ragazzina.
Invece no, erano proprio così, niente di inventato o drammatizzato, piuttosto mi colpisce il fatto che allora non mi sentivo una sfigata, mi sembravano abbastanza normali, e certamente c’era chi stava peggio.
Soprattutto  la fatica che facevo a vivere mi confermava in quell’atteggiamento che mi ha poi accompagnato fin qui e che spesso ricordo alle mie figlie e che si può sintetizzare nel motto

“COMUNQUE NON MI AVRANNO”

Che insomma vuol dire che non ci si deve piangere addosso.

Dopo questa premessa ecco  il ricordo della prima sera in collegio.
Avevo 14 anni, venivo da un paesino sperduto dell’Appennino romagnolo e per la prima volta andavo a vivere lontano dalla famiglia, in una grande città (o almeno tale mi sembrava Forlì) , alla vigilia di entrare in una scuola superiore che metteva soggezione.
In sostanza ero intimidita e preoccupata.
Si scende in sala da pranzo per la cena: un grande salone spoglio, con lunghi tavoli attorno e al centro, per più di settanta coperti.
Sui tavoli i piatti e dentro due mezze fette di mortadella, due trasparenti fette di salame, un formaggino e un cucchiaio di puré.
Ognuno di noi in piedi dietro la propria sedia, in attesa del via che avrebbe dovuto dare la suora.
Io osservo e nella mia grande ingenuità esclamo
“Bell’antipasto!”
La ragazza mia dirimpettaia ribatte
“Antipasto? Questa é la cena!”
Io sbarro gli occhi e lei:
“E’ la cena di tre sere la settimana”

Sconcertata alzo gli occhi e leggo, sopra il passa vivande, una scritta come ce ne erano tante in giro per il collegio: questa diceva  DIO TI VEDE
e io: ” Si, ma certo non si invita!”
La suora che aspettava di dare il via alla preghiera di ringraziamento e poi alla cena mi ha sentito e per gli anni successivi non lo ha dimenticato.

L’importanza del nome 2

Dare il nome a un bambino nuovo é un gesto importante e decisivo.
Sarebbe bene che ci pensassero quelli che battezzano le Debore con acca o senza, i Gionata (!) e via andare, dietro alle mode televisive.
Anche nella Romagna della mia infanzia i genitori spesso mettevano nomi estranei  alla cultura locale, ma almeno non si ispiravano a mode effimere e a idoli inconsistenti.
Chi aveva l’animo ribelle e la fede  in un Ideale con la maiuscola  quando si trattava  di dare il nome ad  un figlio coglieva l’occasione per affermare il proprio credo.
Così  oltre a Costa da Andrea Costa ho conosciuto anche IDA e DEA.

Nomi normali?
Mica tanto: il padre, vecchio anarchico e sindacalista era stato cacciato dalle miniere della Francia  dove era emigrato e aveva dovuto tornare nell’Italia di Mussolini dove era sorvegliato speciale.
Alla nascita della figlia, nonostante fosse saldamente ateo, fece un patto con l’arciprete: avrebbe lasciato che la piccola fosse battezzata con un nome innocuo come Ida o Dea in attesa della caduta del fascismo dopodiché il prete avrebbe tirato fuori i documenti che testimoniavano  che la piccola era stata battezzata col nome di IDEA….
E, come dicono nelle storie, così fu.

Era una famiglia speciale davvero: la sorella di IDEA si chiamava RIVOLTA (non so con quale sotterfugio di nuovo con il prete chiaramente connivente e un po’ ribelle anche lui).
Idea e Rivolta poi avevano un fratello che di nome si chiamava Ferri. Era il cognome di un compagno di miniera, ucciso dalla polizia francese durante uno sciopero.
Nomi per ricordare, affermare, rivendicare,  per dare a quel nome e a quello che rappresenta una speranza ed un futuro e a quel bambino l’augurio di esserne all’altezza.