gli alberi della nascita

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Non é un ricordo personale , ma come dicevo nel titolo del blog ” é una cosa che so, ma se non la racconto…”

Questa cosa l’ho vista solo in questa piccola zona delle Marche fra Fabriano e Sassoferrato.

Sono gli alberi della nascita, che vengono piantati dagli amici della famiglia alla nascita di un bambino.

Come mi è stato spiegato per la nascita di una bambina si cercava un albero  a forma di vaso, di “conocchia” mi hanno detto.

Veniva decorato con i simboli della futura vita della donna: una bambola, una carrozzina, un fuso per filare, il mattarello, una pentola..

L’albero per la nascita di un maschio  é un pioppo il più dritto e alto che si può trovare, viene scortecciato ma si lascia solo un ciuffo di frasche in alto.

Viene decorato con i simboli maschili: un fiasco, un fucilino, una biciclettina e l’immancabile bandiera.

La simbologia é davvero trasparente: l’albero femminile con la sua forma ricorda l’utero mentre quello maschile é chiaramente fallico.

E poi gli oggetti che sono evidentemente frutto di una idea maschilista della vita, all’uomo il mondo e l’avventura (la bicicletta, il fucilino) e alla donna la casa: filare, figli e cucinare. l’albero viene lasciato finché non sarà stata offerta una “merenda” agli amici che l’hanno piantato cosa che deve avvenire entro il primo anno. Una tradizione molto antica della quale non ho trovato notizie ma che si realizza negli stessi luoghi dove ancora si pianta l’albero la notte del primo maggio: insomma dove agli alberi si dà un’importanza e un significato molto profondi , quasi umani.

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a Vincenzo Consolo

bru001.jpgA Vincenzo Consolo oltre alla gioia della lettura delle sue opere devo un grazie per Pantalica.

Se non avessi letto questo nome nel titolo di un suo libro “Le pietre di Pantalica”, quando lo vidi su di una freccia segnaletica in Sicilia non l’ avrei seguita e non avrei visto un posto dalla bellezza, dalla suggestione, dall’atmosfera tali che hanno lasciato in me un segno indelebile.

Pantalica non si vede finché non ci si addentra, lungo un sentiero solitario. Intanto come spesso accade la città dei morti é rimasta, mentre praticamente niente resta della città dei vivi e sì che la civiltà di Pantalica é vissuta secoli , millenni.

Il sentiero scende dall’altopiano in  una gola stretta, quasi una incisione, in fondo alla quale scorre l’Anapo, il fiume il cui nome significa invisibile e infatti si fatica a vederlo, tanto é stretta e profonda la gola.

Non si vede l’Anapo, ma si sente: é l’unica presenza nel silenzio totale della necropoli.

Si cammina avvolti nel suono  torrenziale del fiume, che diventa sempre più presente, fino a diventare una vibrazione avvertibile sulla pelle che ci  avvolge quando raggiungiamo il greto del fiume.

E per arrivare qui in fondo abbiamo camminato in mezzo a centinaia, migliaia di tombe scavate nella parete rocciosa, scendendo lungo la parete verticale traforata di tombe, fra cespugli fioriti di erbe profumate, con lo sguardo imprigionato dentro a questo canyon che da una parte e dall’altra é tutto costellato dai neri occhi delle aperture delle tombe, quasi una simbolica discesa all’Ade.

sulla linea gotica 2°

2^ parte
Il racconto di quell’esodo é stato una specie di Odissea domestica, che ho ascoltato e raccontato tante volte.
Io ero piccola, ero nata nell’agosto del 1943 e questo sfollamento accadde nel 1944; mamma, consapevole che per giorni forse non avrebbe potuto cuocermi niente, preparò un tegame di pancotto per me che ero troppo piccola per riuscire a mangiare altro e affidò il tegame a mia sorella, raccomandandole di non perderlo né rovesciarlo perché ne andava della mia vita.
Si misero in cammino con tutto il paese alle prime luci del giorno, verso le grotte di l’Onferno (da piccola per me era MITRAGLIATRICI.jpgl’Inferno!); io in braccio a mamma, babbo con noi e poi mia sorella con mio fratello  per mano e nell’altra il tegamino.
Camminarono tutto il giorno, verso metà giornata i due bambini si erano persi, confusi nella folla. Li trovò il prete del paese che piangevano e li portò con sé.
Alla sera si ritrovarono tutti nello stesso posto: la Ro aveva ancora in mano il tegamino, il braccio  non riusciva più a muoverlo perché si era anchilosato, dovettero massaggiarglielo (nonostante il dolore e la stanchezza non avrebbe mai lasciato il tegamino perchè la mamma glielo aveva affidato facendole capire che si trattava di vita o di morte).
Mi hanno raccontato che mamma scrostò la patina di polvere scura che ricopriva ormai la mia pappa e..mi sfamò!
Molti anni dopo (quasi 20) sono tornata per la prima volta là, per farmi fare l’estratto dell’atto di nascita.
Ho incontrato un prete al quale ho chiesto informazioni su dove fosse l’ufficio di anagrafe e lui… mi ha riconosciuto “te devi essere uno dei S……  forse sei la B. ”  mostruoso!!)  e poi mi ha raccontato la storia dei due fratellini perduti; quel prete era lui!
Mi ha accompagnato all’anagrafe dove all’ impiegato senza un braccio ha chiesto di indovinare chi fossi…e io invece ho stupito tutti dicendo all’impiegato che sapevo come aveva perso il braccio.
Era un amico di mia sorella, che aveva trovato una granata inesplosa e ci aveva rimesso il braccio.. e la sua storia faceva parte della saga familiare che ogni tanto veniva rievocata.

(*Le foto sono tratte dalla pubblicazione del Comune di Gemmano)

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