il tegamino della pappa

Il tegamino della pappa è caduto e si è rotto il manico…

È il tegame più piccolo della mia batteria di tegami, venne acquistato alla nascita della prima figlia, per la pappa dopo il latte materno; per questo, anche quando ormai erano passati anni e anni dalle pappe e dai biberon, per indicarlo in casa dicevamo “il tegamino della pappa”.

Insomma si può facilmente dire che ha circa 50 anni e per tutto questo tempo lo abbiamo usato, anche dopo le pappe, per piccole quantità, per scaldare un po’ di acqua, insomma quasi ogni giorno e ha sempre fatto il suo dovere. Poi oggi è caduto e si è rotto… porca miseria!

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Rifletto però che è anche il simbolo di una economia e uno stile di discutibili forse: una fabbrica che produce oggetti d’uso così di qualità da durare mezzo secolo (e se non fosse caduto forse anche oltre) come può restare sul mercato? Dovrebbe andare a vendere i suoi tegami anche sui pianeti esterni al sistema solare…

E una famiglia che ne ha avuto cura per mezzo secolo, che non l’ha fatto cadere prima, che non ha avuto voglia di metterlo via e comperarne uno con un design più attuale anche questa famiglia fa venire qualche dubbio.

Siamo così: ancora adesso i nastri non sciupati dei pacchetti, le buste del supermercato piegate a origami, lo spago, i vecchi tegamini prima di buttarli li usiamo e riusiamo finché sono utilizzabili in modo dignitoso e utile o finché non cadono e si rompono… insomma il consumismo ci ha sfiorati ma non assorbiti, ma resta il problema della economia: quanto ha potuto sopravvivere la fabbrica del mio robustissimo tegamino?

ma vai a Jesi!

Gli italiani di provincia mostrano sul web quanto amano le loro piccole patrie. Molti cercano di scrivere i loro proverbi, modi di dire, frasi abituali in un dialetto di cui quasi sempre ignorano  il perché si dice  quello e in quel modo. E’ capitato anche a me, parecchio tempo fa, quando a Jesi ci venivo  da ragazzina dato che ci abitavano i miei parenti più stretti.

400px-Jesi,_MuraAbitavo allora a Bologna e la prima volta che dissi  “in quei giorni vado a Jesi” mi sono sentita rispondere: “Ma ci vai perché ci devi andare o perché ti ci hanno mandato?” La risposta mi incuriosì ovviamente e andai a cercare il perché. Dunque se a Bologna dicevano “Vai ben a Jesi” significando “Va a morire ammazzato” oppure  “Vatti a far impiccare” non è perché i bolognesi abbiano qualcosa a che dire su Jesi (anzi alcuni nemmeno credevano esistesse davvero un posto chiamato Jesi, pensavano fosse lo stesso che ammoriammazzato) ma è che, al tempo del dominio papalino delle Marche e anche del Bolognese, a Jesi si fabbricavano cordami di alta qualità per la Marina Asburgica e per le reali impiccagioni e, vedi caso, anche ottimi saponi che servivano tra l’altro  per lubrificare le corde suddette.

CORDERIE-ROYALE-4-TIJ-022 copie copieInsomma già i marchigiani erano tristemente conosciuti perchè facevano gli esattori per il papa da cui il detto “meglio un  morto in casa che un marchigiano sulla porta”  gli jesini per di più oltre che marchigiani erano anche in qualche modo partecipi delle impiccagioni…

Dunque un detto, ancora oggi o quasi, usato nasce ed  è documento e memoria della storia quella vera anche se non quella “grande”. Il mio parroco mi raccontava che quando era un giovane seminarista, accompagnò un gruppo  a Bologna assieme a tanti provenienti da mezza Italia. Lui reggeva un cartello con la scritta JESI e si accorse che chi li vedeva passare li segnava a dito e sorrideva…
Loro, gli jesini, si guardavano per vedere cosa avessero che suscitava l’ilarità… “che ne so, magari avevamo il sottabito che passava sotto”… Trovarono la risposta solo chiedendo a un prelato bolognese che appunto raccontò la storia del “va ben a Jesi” E diciamo che la storia a volte è noiosa, lontana: è che noi siamo spesso un po’ ignoranti o almeno inconsapevoli, altroché!

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La matematica nei mandarini

mandariniQuesti giorni sulla nostra tavola sono tornati i mandarini o le clementine e come sempre una volta sbucciato il frutto mi trovo a contare gli spicchi.

È un’abitudine che mi è rimasta dalla scuola quando nella stagione invernale i mandarini erano presenti spesso come frutta alla mensa. Per caso qualcuno aveva cominciato parlando degli spicchi a dire cose tipo “io ne ho 8” “i miei sono 12”   e così via.

La differenza aveva già incuriosito qualcuno e io ho intravisto una bella occasione per scoprire la possibilità di studiare quella realtà utilizzando lo strumento della statistica.

In pratica ognuno memorizzava il numero dei suoi spicchi e poi tornati in classe raccoglievamo tutti i risultati scrivendoli alla lavagna.

Siccome ognuno si poteva servire liberamente della frutta questo gioco era anche diventato un incentivo a mangiarne così che spesso quasi tutti i bambini  mangiavano più di un mandarino  per avere più informazioni da esaminare.

Una volta trascritti i dati li organizzavamo per valori (quanti da sei, quanti da…), li rappresentavamo in un grafico e poi facevamo le osservazioni su quale era la moda, quale il numero minimo, quello massimo, e poi la curva di Gauss e… tutto quello che ci  poteva venire in mente.

Grande fu la meraviglia nello scoprire che per quanto piccolo nessun mandarino aveva presentato meno di 5 spicchi  (se non ricordo male) e anche il massimo non andava che raramente più in là dei 12…

E ripetendo ogni tanto l’indagine abbiamo anche scoperto che i risultati erano sempre abbastanza simili tanto da poter azzardare una “legge” degli spicchi di mandarino.

Lezioni di matematica divertenti, saporite, molto partecipate!

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