una storia vera come una favola

Schermata 2022-03-21 alle 18.44.50Una storia vera che il caso e alcune persone, nella parte degli aiutanti magici, hanno trasformato in una specie di favola.

R. era una ragazza di poco più di venti anni quando, mentre era sola, cadde rovinosamente dalle scale ripide e tortuose che andavano in garage.
Quando la trovarono fu portata al vicino pronto soccorso dove un medico appena la vide capì che era un caso difficile e raccomandò la madre di R di portarla immediatamente a Bologna, al Rizzoli, l’unico posto dove avrebbero saputo bene cosa fare.
La mamma di R accolse il suggerimento e partirono assieme a sirena spiegata verso Bologna, un paio di centinaia di chilometri più a nord.
Al Rizzoli erano attese e all’arrivo un gruppo di infermieri e portantini si fecero attorno e la trasferirono R all’interno.

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Fra questi infermieri uno, Aldo, lo ritroveremo in seguito, con un ruolo importante nella storia.
Dai primi esami emerse un quantità incredibile di fratture agli arti e, pericolosissima, una alla colonna vertebrale.
La mamma di R era lì, al suo fianco, sconvolta dal dolore e dalla preoccupazione, cercando di capire cosa si poteva e doveva fare; un paio di giorni dopo il ricovero fu informata che R sarebbe stata spostata nel reparto del Prof X.
La cosa non le piaceva, voleva sapere il motivo, stava per opporsi quando una infermiera anziana, che aveva l’aria di averne viste tante, la prese per un braccio e all’orecchio le disse:
“Non si lamenti, signora, che è la sua fortuna!”.
La mamma di R accolse il suggerimento, non fece nessuna opposizione e R fu spostata di reparto.
Era accaduto che il primario del reparto dove R era stata ricoverata all’inizio, pur fra la quantità delle fratture agli arti e ai piedi aveva deciso che la priorità era la situazione delle vertebre che facevano temere anche la possibilità tremenda di un grave rischio di paralisi. Così aveva chiesto il parere del neurochirurgo X specialista per la colonna vertebrale e questi aveva chiesto di potersene occupare.
Come diceva l’infermiera anziana esperta era una fortuna che R passasse nelle mani abili di X.

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R fu operata… l’operazione riuscì, poi anche le diverse fratture vennero ricomposte e saldate, la riabilitazione fu lunga mesi, vissuta nella clinica specializzata del Rizzoli a Montecatone…
La mamma di R non tornò a casa mai, per mesi, rimase sempre accanto a R, facendo amicizia con altri degenti e i loro familiari, cercando di rendersi utile aiutando quanti e come poteva ed era molto.
Aveva promesso a se stessa, a R (e credo anche a Dio) che sarebbe tornata a casa solo con R in piedi!
E infatti R tornò a casa, camminando con grande circospezione con le stampelle, ma camminando!
Quando dopo mesi la mamma di R incontrò il prof X gli prese le mani e gliele baciò, dichiarando che “quelle mani sante” erano da venerare.
Lui naturalmente si schernì.
La mamma andò anche a ringraziare quel medico che anziché ricoverare R aveva spinto la mamma a partire subito per Bologna: gli interventi dei consiglieri magici vanno rispettati.
R ha continuato a camminare, senza più stampelle, con i suoi piedi deformati dalle saldature delle ossa che avevano trovato una soluzione poco canonica.
Non erano belli, anzi… e per di più non si riuscivano a trovare scarpe con un aspetto appena un po’ femminili che riuscissero a contenerli quei piedi.
R e la sua mamma partirono così verso una grande città del nord dove lavorava una équipe famosa per la chirurgia del piede.
I piedi di R furono fotografati, scannerizzati, indagati con tutte le tecniche. Fu chiesto a R di camminare davanti agli esperti che filmavano ogni particolare. Dopo qualche giorno di attesa il responso fu sorprendente.
I vari specialisti che avevano studiato quei piedi non riuscivano a capire come facesse R a camminare con molta sicurezza e senza provare dolore; non solo non si sarebbero mai azzardati a toccare quel misterioso equilibrio che si era venuto a creare, ma chiesero di poter avere qualche giorno ancora di tempo per continuare a studiare il caso e potersene servire a scopo didattico.
E l’infermiere Aldo? Aveva aiutato a portare dentro il pronto soccorso la barella di R…
Cosa aveva visto?
Solo il viso: R era una ragazza giovane, non bellissima, ma con un viso dolce e i capelli lunghi. Era senza conoscenza, per di più sconvolta dai traumi subiti e dal viaggio.
Che cosa ha visto Aldo?
Ha visto, raccontava, l’amore della sua vita.
Aldo era un ragazzo trentenne, emigrato a Bologna per specializzarsi nella sua professione di infermiere presso un Ospedale famoso come il Rizzoli. Un ragazzo piacevole di aspetto, l’aria dolce e timida, nativo di un paesino marchigiano poco distante da quello di R.
Passava spesso a trovare R e la sua mamma finché restarono al Rizzoli, poi una volta trasferite a Montecatone nel suo giorno libero andava a trovare R portando fiori, piccoli doni, dolci…
Per R diventò una presenza desiderata e attesa…
Sono sposati da circa trent’ anni.
Conosco davvero i protagonisti di questa storia vera ma ogni tanto quando la penso mi pare potrebbe anche essere una favola della quale ci sono tutti gli ingredienti.

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le foto sono prese dal web, che ringrazio

per non dimenticare: Forlì 1959

Forlì, 1959. Una cittadina in cui i segni del fascismo appena caduto sono ancora molto presenti e numerosi dato che “lui” era di qui. Noi andiamo a scuola in un edificio fascista, che è stato accademia aeronautica

Italy, Forli

 e l’enfasi e la prosopopea mussoliniana sono ovunque; i muri dei locali dove studiamo, quelli delle scale e dei corridoi sono ricoperti di mosaici bianchi e neri che ripetono ossessivamente gli slogan e le parole d’ordine della propaganda mussoliniana:

da “vincerevincerevincere” a “non più alto non più forte è la bestemmia a dio e all’uomo più oltraggiosa” ma noi non ci facciamo caso, è come se non significassero niente:  archeologia.

In questo clima di “oblio” capita una cosa strana: in città compaiono svastiche sui muri; grande scandalo sui giornali, polemiche in città. 
Nel mio collegio praticamente nessuno sa cosa significhi quello che sta accadendo: eppure sono passati così pochi anni…

La mia compagna di studio, liceale, fa del sarcasmo sul perché di tutto questo rumore “in fondo per un disegno!”

Non sa cosa significhi e nemmeno come sia fatta allora glielo spiego, disegnando sul margine della pagina del testo di storia della filosofia, l’Abbagnano sul quale sto studiando, la svastica della quale si discute.
Il giorno dopo, in classe,  Istituto magistrale, 3° anno, il professore di filosofia si fa prestare, come succede spesso dato che sto al primo banco e sono una sua affezionata, il mio testo.

Dopo averlo aperto sbianca… mi chiede ragione del disegno di svastica che è ancora lì, che ho dimenticato di cancellare. Racconto come è stato.
 Allora si rivolge alla classe e chiede se tutti nella stessa situazione sarebbero stati in grado di spiegare il significato e la gravità della comparsa delle svastiche sui muri. 
Quasi nessuno ne sa niente! Allora il professore  ci propone di dedicare parte delle nostre lezioni settimanali alla lettura di un testo che ci faccia capire che cosa sono stati il nazismo e il fascismo e cosa i campi di sterminio.

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Comincia così una serie di lezioni durante le quali si legge, di seguito, il libro di Piero Caleffi.  E’ il diario dell’esperienza vissuta da Caleffi nel campo di concentramento attraverso tutto l’orrore fino alla liberazione. 
Al sopraggiungere degli alleati Caleffi fugge per correre nel prato di là del recinto che tanto a lungo ha guardato sognando la libertà . Io ero il lettore ad alta voce: ricordo che qualche volta ho faticato a proseguire, con la voce rotta dall’emozione.
Il professore ci aveva spiegato che aveva scelto quel libro perché, nonostante l’esperienza terribile fosse stata vissuta direttamente dall’autore, questi aveva saputo raccontarla senza una sola parola di odio e di vendetta.

Era vero, non c’era una sola parola di odio, bastavano i fatti raccontati con lucidità, a condannare e a insegnarci cosa pensare di quei fatti e cosa pensare di quei “disegni“ apparsi sui muri della nostra città.

Non mi ricordoIcaro pulito che ci siano state grosse discussioni sul testo: bastava da sé. A margine: questo avveniva in un istituto magistrale statale tradizionale, un po’ bigotto,  in un tempo in cui  veniva controllato (e nel caso censurato) l’abbigliamento delle alunne e praticamente proibito il rossetto, ma c’era posto per insegnanti seri, coraggiosi e intraprendenti.

A margine ancora: non so come ho saputo  che anche lui aveva avuto esperienza del fascismo e delle persecuzioni… veniva a scuola con l’Avanti che sporgeva  dalla tasca e questo era a quel tempo un comportamento non solo fuori dagli schemi, ma anche coraggioso e non immune da rischi.

quando inventammo l’albero di Natale

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Era forse il 1945, a S.Agata Feltria, sull’Appennino marchigiano, luogo che ospita i miei primi ricordi e in fondo un po’ tutta la mia infanzia, luogo dove eravamo arrivati finalmente trovando rifugio dopo le violenze della linea gotica da cui veniva la mia famiglia.

Era il primo Natale più tranquillo anche se ancora molto povero e fu così che il mio babbo allestì il primo albero di Natale della nostra famiglia, che fu anche  a dire la verità  il primo in assoluto per tutto il paese

Succedeva perché il mio babbo era nato nel 1915 a Boston, Massachusetts, da genitori che erano immigrati negli Stati Uniti ed erano poi rientrati in Italia quando il mio babbo aveva una decina d’anni dunque al mio babbo le feste di Natale ricordavano l’albero decorato della tradizione nordica come lo aveva vissuto in quell’altra vita, nella sua infanzia americana.

Così in casa nostra arrivò un ramo di abete, nemmeno tanto grande, al quale vennero appesi dei meravigliosi mandarini! Meravigliosi certo perché erano frutti esotici, venivano dall’estremo sud dell’Italia con mezzi di trasporto di fortuna, che ricominciavano a viaggiare. Ed erano dolci e succosi, un sapore delizioso.

Facevano una gran figura, così lucidi e colorati, ma non erano l’unica decorazione del nostro “ramo di Natale”.

In quei tempi così spartani quando capitava di ricevere una caramella o un dolcetto incartato con carte colorate noi bambini vissuti per anni nelle ristrettezze non gettavamo gli incarti, anzi! Con pazienza stiravamo questi piccoli tesori lisciandoli con cura con il dorso delle unghie e li tenevamo da parte.

Così quel primo Natale abbiamo ricoperto delle castagne e delle nocciole, delle coccole di cipresso e delle noci con le nostre cartine appendendole poi al ramo dei mandarini.

Nonostante fossi piccolissima ne ho delle immagini precise; ricordo che mi sembrava bello e che sembrava bello anche ai nostri vicini di casa (vivevamo in una specie di casa popolare) che venivano a vederlo.

Come dicevo era il primo “albero” di Natale che si vedesse da quelle parti.

Era così bello, fiabesco, colorato che ci conquistò subito tutti e diventò presto una tradizione. Solo un paio d’anni dopo il ramo fu sostituito da un vero e proprio abete come si cominciavano a vederne anche sui giornali.

Il nostro era uno di quelli che la Guardia Forestale tagliava per motivi di tutela del bosco facendone poi arrivare uno a casa nostra ogni anno qualche giorno prima di Natale.  Credo che questa attenzione fosse dovuta al fatto che babbo era il dirigente dell’ufficio delle imposte… in ogni caso veder arrivare l’albero era una festa.

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Un anno era così grande che dovettero lasciarlo nell’atrio del palazzo e tagliarne un pezzo perché riuscisse ad entrare in casa! Il profumo di resina riempiva tutti gli ambienti e durava per tutte le feste

Anche le decorazioni cambiarono radicalmente. Il benessere cominciava a farsi strada e ogni anno i nostri genitori facevano una trasferta a Rimini, partendo presto con la corriera, e tornavano carichi di pacchetti che sparivano subito chissà dove.

Avremmo visto le meraviglie che contenevano solo il giorno di Natale, perché durante la notte della vigilia babbo e mamma avrebbero addobbato l’albero ricoprendolo di decorazioni in vetro soffiato, ghirlande luminose, festoni dorati… e dolciumi.

Ai piedi del meraviglioso albero ci sarebbe stato poi un pacchetto per ognuno di noi.$_59

ps: le immagini provengono dal web che ringrazio…