L’inverno è un tempo di riposo per la terra e di conseguenza anche per i contadini. Di riposo, ma non di ozio infatti un tempo era il tempo dei lavori al riparo, dei piccoli lavori di manutenzione degli attrezzi e anche della costruzione dei cesti.
A suo tempo lungo i fossi erano stati tagliati i venchi, i rami sottili e flessibili dei salici e poi erano stati messi da parte per quando, l’inverno, al calduccio relativo della stalla, ci si metteva in compagnia a fare cesti, gavagni, canestri, gerle, panieri, sporte, crini… Un lavoro meno faticoso certo di quello nei campi, ma non meno utile. Adesso per noi un cestino di vimini è un oggetto decorativo, di arredo; ne abbiamo quasi in ogni casa, ma nel mondo prima dell’avvento della plastica i contenitori di qualunque tipo, per i prodotti dell’orto e quelli del campo, per trasportare e contenere erano cesti, di fogge e grandezze diverse a seconda degli usi, ma sempre fatti a mano con ramoscelli elastici e resistenti.
Dalle gerle di legna o di fieno che i montanari portano sulla schiena alle ceste per la raccolta dell’uva e delle olive, e i canestri di uova per il pollaio, al crino… tutti fatti ingegnosamente a mano, tutti perfettamente adatti all’uso a cui servono, tutti inventati e costruiti seguendo regole modelli antichi e a volte, più raramente, con qualche fantasia.
Alcuni tipi di cesti non sono più usuali, sono diventati quasi incomprensibili, come per esempio il “crino” che nel museo della civiltà contadina di Senigallia è definito così: si usa rovesciato per trattenere i pulcini e la chioccia ed evitare che i piccoli si disperdano nel prato.
Ormai le stalle sono diventate tutta un’altra cosa, diversa da quella specie di “salotto” in cui si riunivano anche fra vicini e passavano ore tranquille, ma non inoperose, a chiacchierare mentre erano intenti chi a fare cesti, chi ad aggiustare attrezzi, a fare la maglia, a rammendare panni, a capare verdure… tutte cose che vedevo fare tanto spesso anni fa.
Adesso è difficile vedere all’opera un cestaio e così quando, qualche anno fa, passeggiando per il paese di Sepino ho visto questa scena mi sono fermata a guardare e ho cercato di attaccare discorso. Il signore ha continuato a lavorare, ma davanti al mio entusiasmo ha risposto benchè con una certa sobrietà, alle mie domande.
Ho subito chiesto di comprare un cesto, mi pareva ovvio che li facesse per venderli e invece no, mi rispose che lui non li vendeva, li faceva perché gli piaceva farli. Non ricordo come, certo non con la violenza ma in cambio di qualche euro, poco dopo camminavo per Sepino con l’aria fiera tenendo in braccio il cesto conquistato.
Le persone che incontravo mi guardavano con una certa curiosità che io attribuivo al fatto che ero “forestiera” in un paese piuttosto piccolo dell’interno del Molise. Ho capito però che poteva esserci un’altra spiegazione quando ho raggiunto Giorgio al bar della Piazza centrale, sempre con il mio cestino in braccio.
La barista prima di chiedermi cosa volevo bere mi chiese. “Dove ha preso quel cestino?” Io, un po’ stupita della domanda, anche leggermente seccata, glielo spiegai e lei: “È mio padre, non li dà a nessuno, nemmeno a noi di famiglia. Gliene ho chiesto uno per Natale e lui non me lo ha dato…”
Abbiamo riso assieme del fatto che forse io con la mia abituale parlantina dovevo averlo frastornato tanto che pur di togliermi di torno aveva ceduto. Ho sotto gli occhi ogni giorno quel cestino che mi ricorda Sepino, un incontro, un’arte semplice, utile e colta.