per non dimenticare: Forlì 1959

Forlì, 1959. Una cittadina in cui i segni del fascismo appena caduto sono ancora molto presenti e numerosi dato che “lui” era di qui. Noi andiamo a scuola in un edificio fascista, che è stato accademia aeronautica

Italy, Forli

 e l’enfasi e la prosopopea mussoliniana sono ovunque; i muri dei locali dove studiamo, quelli delle scale e dei corridoi sono ricoperti di mosaici bianchi e neri che ripetono ossessivamente gli slogan e le parole d’ordine della propaganda mussoliniana:

da “vincerevincerevincere” a “non più alto non più forte è la bestemmia a dio e all’uomo più oltraggiosa” ma noi non ci facciamo caso, è come se non significassero niente:  archeologia.

In questo clima di “oblio” capita una cosa strana: in città compaiono svastiche sui muri; grande scandalo sui giornali, polemiche in città. 
Nel mio collegio praticamente nessuno sa cosa significhi quello che sta accadendo: eppure sono passati così pochi anni…

La mia compagna di studio, liceale, fa del sarcasmo sul perché di tutto questo rumore “in fondo per un disegno!”

Non sa cosa significhi e nemmeno come sia fatta allora glielo spiego, disegnando sul margine della pagina del testo di storia della filosofia, l’Abbagnano sul quale sto studiando, la svastica della quale si discute.
Il giorno dopo, in classe,  Istituto magistrale, 3° anno, il professore di filosofia si fa prestare, come succede spesso dato che sto al primo banco e sono una sua affezionata, il mio testo.

Dopo averlo aperto sbianca… mi chiede ragione del disegno di svastica che è ancora lì, che ho dimenticato di cancellare. Racconto come è stato.
 Allora si rivolge alla classe e chiede se tutti nella stessa situazione sarebbero stati in grado di spiegare il significato e la gravità della comparsa delle svastiche sui muri. 
Quasi nessuno ne sa niente! Allora il professore  ci propone di dedicare parte delle nostre lezioni settimanali alla lettura di un testo che ci faccia capire che cosa sono stati il nazismo e il fascismo e cosa i campi di sterminio.

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Comincia così una serie di lezioni durante le quali si legge, di seguito, il libro di Piero Caleffi.  E’ il diario dell’esperienza vissuta da Caleffi nel campo di concentramento attraverso tutto l’orrore fino alla liberazione. 
Al sopraggiungere degli alleati Caleffi fugge per correre nel prato di là del recinto che tanto a lungo ha guardato sognando la libertà . Io ero il lettore ad alta voce: ricordo che qualche volta ho faticato a proseguire, con la voce rotta dall’emozione.
Il professore ci aveva spiegato che aveva scelto quel libro perché, nonostante l’esperienza terribile fosse stata vissuta direttamente dall’autore, questi aveva saputo raccontarla senza una sola parola di odio e di vendetta.

Era vero, non c’era una sola parola di odio, bastavano i fatti raccontati con lucidità, a condannare e a insegnarci cosa pensare di quei fatti e cosa pensare di quei “disegni“ apparsi sui muri della nostra città.

Non mi ricordoIcaro pulito che ci siano state grosse discussioni sul testo: bastava da sé. A margine: questo avveniva in un istituto magistrale statale tradizionale, un po’ bigotto,  in un tempo in cui  veniva controllato (e nel caso censurato) l’abbigliamento delle alunne e praticamente proibito il rossetto, ma c’era posto per insegnanti seri, coraggiosi e intraprendenti.

A margine ancora: non so come ho saputo  che anche lui aveva avuto esperienza del fascismo e delle persecuzioni… veniva a scuola con l’Avanti che sporgeva  dalla tasca e questo era a quel tempo un comportamento non solo fuori dagli schemi, ma anche coraggioso e non immune da rischi.

imparare a memoria…

images-1.jpgMi pare che questo argomento in questo blog ci stia proprio bene: imparare a memoria, una cosa che ci ricordiamo noi che abbiamo un’età.

Una delle pratiche scolastiche più criticate e osteggiate eppure…  Io ho dovuto imparare a memoria un mucchio di cose, filastrocchine insulse, brutte cosiddette “poesie” e tante parole belle.

Mandare a memoria Carducci era facile: tambureggianti come sono i suoi versi, con un bel po’ di parole astruse, ma in fondo  parapà parapà pappapero. Ma ce ne erano di quelli che bisognava impegnarsi per ricordarli. Tanto Dante mi hanno fatto imparare, e Leopardi e Pascoli, Dannunzio (anche la pioggia nel Pineto ovvio!) e Manzoni, a parte i brani dei Promessi sposi anche lui aveva parecchi parapà (Ei fu. Siccome immobile…)

images.jpgCon Manzoni ho un fatto personale: avevo imparato a memoria il discorso del vescovo Martino dall’Adelchi un brano lunghetto e piuttosto ostico. Per  non annoiarmi lo leggevo e ripetevo come se avessi dovuto declamarlo a teatro.

Il giorno dopo in classe entra il Preside, che curava personalmente le classi che dovevano fare la maturità con incursioni temutissime. E mi interroga. Comincio a recitare il mio vescovo Martino e vado avanti avanti sempre più preoccupata; infatti di solito ti facevano dire una parte poi ti chiedevano di fare la “parafrasi” insomma spiegarla e commentarla… continuavo ad andare avanti e pensavo:  “Oh, madonna! quanta me ne fa spiegare” e invece una volta finito mi fa i complimenti e mi manda a posto con un volto altissimo mi pare 9 o forse addirittura 10. Una mia collega storse un po’ il naso e il Preside le spiegò che se uno la diceva così era inutile chiedere le spiegazioni perchè era evidente che aveva capito. Una grande soddisfazione che mi ripagò ampiamente della fatica.

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Poi ci sono state le poesie e i brani scelti da me , senza obblighi scolastici, quelli che  ho imparato a memoria per poterli portare  sempre con me, per farmi coraggio, compagnia, per sentirmi capita e in comunione con l’autore.

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Ecco a questo é servito per me l’abitudine ad imparare a memoria, avere dentro il mio cervello le parole che  descrivevano un momento, una emozione, un sentimento, una situazione, una idea, un principio.. ma in quel preciso modo, con quelle precise parole, con quel ritmo che le rendono speciali, con le quali l’autore le ha dette costruendo una magia straordinaria, poesia insomma.

Adesso mi capita spesso, in situazioni le più diverse, di scoprire che nel mio cervello escono fuori da sole le parole di qualcuno, imparate chissà quando, che sono perfette, un commento assolutamente preciso e senza che mi debba sforzare a cercarlo… Dunque sono ampiamente ripagata dell’impegno che ci ho messo.

Ma a volte la memoria fa scherzi strani: mi capita di ricordare cose… che non ho imparato. Per esempio ci sono versi di Lorca che così come li ricordo io… non ci sono in nessuno dei suoi testi che ho… deve averlo rielaborato la mia memoria, magari per vendicarsi

 

nonostante la Costituzione non mi sono laureata

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Per riuscire a prendere il diploma da maestra elementare ho dovuto faticare molto; proprio appena iscritta all’Istituto Magistrale morì all’improvviso mio padre, l’unico genitore. L’Ente di assistenza cui babbo pagava i contributi mi garantiva una borsa di studio (purché avessi raggiunto la media dei 7/10) con la quale avrei potuto pagare la retta del Collegio in cui dovevo stare visto che nel mio paesino non c’erano scuole superiori.

È stata spesso dura, a volte mi è sembrata impossibile, ma ho avuto la fortuna di incontrare persone speciali, a scuola e anche in collegio (anche dei veri pezzi di m… ma di questi taccio) come ho  raccontato qui e qui.

In fondo però avevo dentro di me una determinazione forte a farcela e spesso ricordavo a me stessa le parole della Costituzione che conoscevo perché nella nostra scuola ce la facevano studiare (1956-1960)!

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Quel “I capaci e meritevoli” parlava di me… e io faticavo, studiavo, leggevo, pensavo, riflettevo per essere all’altezza, per essere “capace” e dunque “meritevole”.

Mi sono diplomata con una votazione all’epoca altissima con un esame di Stato che proprio quell’anno era più severo del solito…

La borsa di studio dell’Ente, come ho scoperto subito dopo, mi garantiva di poter comprare si e no qualcuno dei libri che servivano all’Università cui mi ero iscritta e allora… mi sono buttata a studiare (mentre lavoravo 9 ore al giorno come segretaria in una fabbrichetta) per vincere il Concorso Magistrale e ce l’ho fatta, arrivando fra i primi 20 (di più di mille) concorrenti.  A venti anni avevo uno stipendio e un posto di lavoro che mi piaceva e anche molto.

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Il desiderio di sapere, di approfondire non mi aveva abbandonato, anzi! Però ormai non era più l’Università, secondo me, a darmi la risposta e così: libri, corsi, incontri, associazioni, MCE, Cemea, convegni, partecipazione, approfondimenti…

Mi sono iscritta  poi ad una università (il titolare della cattedra di pedagogia mi aveva sollecitato a farlo!), ma ho lasciato andare le cose, ormai avevo la famiglia, le figlie, ero impegnata nella comunità parrocchiale e nel Consiglio Comunale, nel Sindacato, nello Scoutismo e la sperimentazione nella scuola a tempo pieno richiedeva lavoro e fantasia (ma dava enormi soddisfazioni)

Spesso i miei dirigenti scolastici mi chiedevano di tenere corsi di formazione ai colleghi, cosa che facevo ovviamente senza compenso, guadagnandomi qualche gratificazione ma molte più critiche acide e l’epiteto di “capisciona” (la saputella)

Però… non mi sono laureata

Fino ad un certo punto non importava a nessuno, i titoli extra universitari che avevo accumulato bastavano a darmi la patente di “competenza” poi ho cominciato a scoprire che anche per un piccolo scatto di stipendio o partecipazione a un concorso era richiesta la laurea…

Non mi importava più… insegnare nella scuola elementare mi dava piacere e soddisfazioni.

Poi piano piano il mondo è cambiato attorno a me e ho lasciato la scuola appena ho potuto perché i miei valori non andavano più d’accordo con quelli della maggior parte dei  genitori.

Insomma non mi sono laureata

Avevo dimenticato la promessa dell’art.34, quella sulla quale aveva appoggiato la mia speranza e la mia forza

“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

La Repubblica rende effettivo questo diritto”

l’ho ritrovato ultimamente mentre cercavo il testo preciso dell’art.34 e rileggendolo mi sono ritrovata lì, ragazzina sola nello studio del collegio, mentre cercavo di continuare a studiare nonostante la stanchezza, che mi ripetevo “i capaci e i meritevoli…

Non mi sono laureata: sono ancora in credito perché con me la Repubblica non ha  reso effettivo il mio diritto… questo è un credito che non riuscirò a riscuotere.

So dunque per esperienza personale che per sapere non è indispensabile avere una laurea, ma non mi viene in mente di deridere o sfottere i “plurilaureati” come si usa adesso. La differenza la fa il desiderio di conoscere e cercare, il tempo e la fatica personale dedicati a migliorare se stessi, il non sentirsi mai arrivati, non pretendere che essere ignoranti possa essere un vanto e un merito.

Quello che ho imparato mi è stato utile a sentirmi capace e meritevole, a farmi tanti amici anche fra gli ex alunni, qualche genitore e qualche ex collega ma comunque:

NON MI SONO LAUREATA!

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