Io, Fellini e Rimini

Posso dire con tranquilla modestia che ho molte cose in comune con Fellini:  i ricordi d’infanzia.
Quando andai a vedere “8 e mezzo” e all’improvviso  il colore passò dal bianco e nero al color seppia, una bambina saltava sul lettone sussurrando ” asa – nisi – masa”, i personaggi si misero a parlare in romagnolo ( e mezza galleria del cinema marchigiano dove eravamo si girò verso di me chiedendomi cosa avessero detto) io ero annichilita: aveva filmato i miei ricordi, anche quelli che non sapevo di avere.
Ma non basta essere romagnoli per avere i ricordi in comune con Fellini: a dire la verità io  ho passato tutte le estati della mia infanzia sulla spiaggia di Rimini, e proprio nel quartiere di S. Giuliano a mare, che era il suo quartiere.

 Ogni estate scendevamo dalla montagna e andavamo dalla zia Bigia (non so bene come si chiamasse) che abitava a Rimini, nel quartiere di S.Giuliano, a nord del Porto canale, che era un quartiere povero, di pescatori. Aveva una casetta a un solo piano, circondata da un marciapiede di cemento, circondato a sua volta da una aiuola nella quale coltivava fiori e …pomodori.
Dava ombra a tutto un superbo fico, restato famoso perché essendo la zia un po’ economa (avara, insomma), quando si arrivava a trovarla l’unica offerta che immancabilmente faceva era: “vut un mataloun ?” che tradotto significa “Vuoi un matalone?” cioè il tipo dei fichi prodotti dall’albero di cui sopra.
Lì ho conosciuto i primi villeggianti milanesi  e  una spiaggia che ho poi rivisto nei film di Fellini, proprio uguale.
Alla mattina presto andavamo sulla spiaggia ancora deserta ad aiutare, si fa per dire, i pescatori che tiravano le reti a riva (la tratta) e in cambio del nostro aiuto (!)  davano a noi bambini il permesso di riempire di lattarini, i pescetti piccolissimi, i nostri secchielli.
Noi fratelli eravamo molto fieri di questo nostro lavoro perchè il guadagno  era il pesce preferito dalla mamma.
Lì ho conosciuto anche il primo cinema all’aperto, che era vicino a casa della zia Bigia; costeggiavamo il suo recinto di “canezza” (cannucciaia) per andare al mare.
A me mi facevano alzare presto alla mattina perché dovevo respirare l’aria jodata, che l’inverno era lungo e freddo su in montagna e io, dicevano i dottori, ero fragile (mamma mi raccontava come il suo dottore scuoteva spesso la testa mentre mi visitava a sottintendere che forse non ce l’avrei fatta).
Su quella spiaggia c’erano le tende che erano dei grandi rettangoli di tela a rigoni, ogni bagnino aveva i suoi colori.
 Queste tende, somigliantissime a vele latine, avevano, sui due lati corti, un bastone che le teneva tese ; uno dei due lati corti veniva agganciato ad un palo, come fosse la vela di una barca mentre l’altro lato veniva piantato a terra, tramite due pioli che si conficcavano nella sabbia.
Si aveva così un’ombra grande, ma che durante il giorno si assotigliava e allora il bagnino veniva a girare le tende, toglieva i pioli, faceva ruotare il telo e poi  li ripiantava .
Mi sembrava molto più bello che con gli ombrelloni di adesso, c’era più ombra, più fitta e poi …..quel cantuccio di ombra lì, fra il punto in cui la tenda toccava la sabbia e le sdraio, immancabilmente girate dall’altra parte, é stato per ore lunghissime e bellissime il regno  segreto di me bambina  piccola e gracile che non poteva allontanarsi, né stare troppo al sole
Ma lì si era al riparo anche dagli sguardi degli adulti e si poteva inventarsi tutto.RIMINI 3.jpg

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