Carmelo Bene e la banalità quotidiana

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“La nostra società è disfatta, e la borghesia è morta, il teatro non esiste più… ci hanno anestetizzato, imbottito di tranquillanti, sono riusciti a non farci più reagire. Hanno proprio vinto gli imbecilli, gli idioti”.

Leggendo questa citazione di Carmelo Bene che mi è capitata per caso sotto gli occhi ho rivisto improvvisamente una scena accaduta molti anni fa, alla fine degli anni ’70.

Uscivamo alla mattina tutti cinque assieme per andare poi ognuno al suo lavoro in ufficio o a scuola. Succedeva a Jesi, piccola città della provincia marchigiana. Passavamo al bar sotto le Logge dove noi adulti ci bevevamo il caffè che a casa non facevamo in tempo a prendere, troppo indaffarati nella preparazione delle colazioni e la vestizione della “truppa”.

Le Logge si affacciano sulla piazza principale della cittadina come anche il glorioso Teatro Pergolesi.

Jesi : la piazza della Repubblica, il Teatro e le Logge

Jesi : la piazza della Repubblica, il Teatro e le Logge

Una mattina al bar ci siamo imbattuti in un gruppo di persone “forestiere”: erano Carmelo Bene e i suoi collaboratori che da qualche settimana utilizzavano il nostro teatro per le prove del loro nuovo spettacolo.

Un utilizzo un po’ strumentale che però è abituale: la compagnia famosa usava la struttura gratuitamente (e i costi dell’apertura di un teatro grande come questo non sono proprio leggeri) e in cambio la compagnia avrebbe poi offerto lo spettacolo come anteprima nazionale con una ricaduta notevole dal punto di vista pubblicitario data la presenza dei grandi critici e degli invitati famosi

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Insomma eravamo lì, le bambine con le cartelle che chiacchieravano fra loro e noi due a sorseggiare il nostro caffè… Il Maestro guarda la scena con occhio un po’ cisposo e il tono leggermente sarcastico della sua celeberrima voce dice ai suoi:

“Ecco, vedi, loro si sono svegliati da poco e noi invece andiamo a letto adesso…” sorrisini di commiserazione nel corteo dei sodali.

Insomma ci aveva dato dei poveri provinciali prevedibili e scontati, dei borghesucci senza fantasie.  Siamo andati tranquillamente ai nostri impegni quotidiani… . La mattina dopo, sempre al bar delle Logge a prendere il solito caffè.  Non c’è nessun gruppo di teatranti. Ne chiedo al barista:  

“Non sai? Questa notte Carmelo Bene è caduto dalla scala del palcoscenico e si è rotto una gamba… come capitava spesso pare non fosse proprio sobrio, …”

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Teatro Pergolesi, Jesi, Marche

Insomma le prove furono interrotte, lo spettacolo offerto all’Amministrazione del Teatro andò in fumo, noi continuammo banalmente ad andare al bar la mattina a prendere banalmente il nostro buon caffè e insomma ad essere sempre banalmente noi stessi, provinciali e tranquilli.

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ma vai a Jesi!

Gli italiani di provincia mostrano sul web quanto amano le loro piccole patrie. Molti cercano di scrivere i loro proverbi, modi di dire, frasi abituali in un dialetto di cui quasi sempre ignorano  il perché si dice  quello e in quel modo. E’ capitato anche a me, parecchio tempo fa, quando a Jesi ci venivo  da ragazzina dato che ci abitavano i miei parenti più stretti.

400px-Jesi,_MuraAbitavo allora a Bologna e la prima volta che dissi  “in quei giorni vado a Jesi” mi sono sentita rispondere: “Ma ci vai perché ci devi andare o perché ti ci hanno mandato?” La risposta mi incuriosì ovviamente e andai a cercare il perché. Dunque se a Bologna dicevano “Vai ben a Jesi” significando “Va a morire ammazzato” oppure  “Vatti a far impiccare” non è perché i bolognesi abbiano qualcosa a che dire su Jesi (anzi alcuni nemmeno credevano esistesse davvero un posto chiamato Jesi, pensavano fosse lo stesso che ammoriammazzato) ma è che, al tempo del dominio papalino delle Marche e anche del Bolognese, a Jesi si fabbricavano cordami di alta qualità per la Marina Asburgica e per le reali impiccagioni e, vedi caso, anche ottimi saponi che servivano tra l’altro  per lubrificare le corde suddette.

CORDERIE-ROYALE-4-TIJ-022 copie copieInsomma già i marchigiani erano tristemente conosciuti perchè facevano gli esattori per il papa da cui il detto “meglio un  morto in casa che un marchigiano sulla porta”  gli jesini per di più oltre che marchigiani erano anche in qualche modo partecipi delle impiccagioni…

Dunque un detto, ancora oggi o quasi, usato nasce ed  è documento e memoria della storia quella vera anche se non quella “grande”. Il mio parroco mi raccontava che quando era un giovane seminarista, accompagnò un gruppo  a Bologna assieme a tanti provenienti da mezza Italia. Lui reggeva un cartello con la scritta JESI e si accorse che chi li vedeva passare li segnava a dito e sorrideva…
Loro, gli jesini, si guardavano per vedere cosa avessero che suscitava l’ilarità… “che ne so, magari avevamo il sottabito che passava sotto”… Trovarono la risposta solo chiedendo a un prelato bolognese che appunto raccontò la storia del “va ben a Jesi” E diciamo che la storia a volte è noiosa, lontana: è che noi siamo spesso un po’ ignoranti o almeno inconsapevoli, altroché!

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c’era una volta una ragazza che si chiamava Luisa…

Sembra una favola. La favola di Zia Luisa (anzi Luigia che era il suo vero nome)
La guerra era finita da poco o forse eravamo nel periodo in cui l’Italia era divisa fra un Nord ancora sotto i tedeschi ed un Sud già “liberato”.
treno MilanoDunque: zia Luisa viveva a S.Mauro, dove era la casa del marito Giovanni che però era militare, prigioniero in Jugoslavia (a Budua,  sul Cattaro dove lo aiutarono degli slavi che solo trent’anni dopo riuscì a rivedere.. un’altra storia…)

La fame era tanta perché non c’era lavoro e Luisa aveva anche la responsabilità dei genitori di Giovanni e della sorella..
Lei era piena di voglia di fare e soprattutto era abituata a non arrendersi del resto già da bambina era andata a lavorare come garzona (cioè tutto fare poco pagata ) da una fruttivendola che aveva una botteguccia sulle scalinate che portano dalla Piazza alla Collegiata (cioè la chiesa principale) di Santarcangelo.
Era una vita dura per una bambinetta come era a quel tempo, ma la zia l’ha sempre raccontato come un periodo felice;  il lavoro le piaceva, soprattutto darsi da fare per farsi apprezzare dalla gente la rendeva orgogliosa di sé. Insomma vendere era il suo mestiere, ma in quel durissimo dopoguerra non c’era niente da vendere, anzi – come me lo raccontava lei – nel riminese ci sarebbe anche stato il modo di trovare della merce, ma nessuno aveva i soldi per comperare e nemmeno altre merci da scambiare.
Un giorno (diceva proprio così, come nelle favole) si venne a sapere che giù, nelle Marche, era possibile fare qualche affare, c’era disponibilità di denaro.
Era difficile crederlo, ma in effetti il bisogno era tale che il rischio non riusciva a spaventare, specie un carattere forte come quello di Luisa.
Aveva un’amica a S.Mauro, la Guerrina, anche lei col marito disperso in guerra, che non si sapeva se vivo o morto e anche lei senza niente da mangiare.
Si fecero coraggio e andarono da un conoscente che aveva un ingrosso di panni a Rimini, un certo Conti e si fecero dare a credito qualche pezzo di stoffa, qualche lenzuolo… poche cose con la promessa di pagare appena – e se – fossero riuscite a vendere. Avranno anche firmato delle cambiali,  non so bene, certo hanno fatto un grosso azzardo ad indebitarsi tanto, ma l’azzardo più grosso lo fecero poi, quando con il loro carico prezioso infilato in una valigia di fibra (il cartone pressato che allora stava in luogo del cuoio) presero un carro merci che andava a sud.
F.Patellani Il viaggio era stato fortunoso ma per Luisa e la sua compagna, nonostante la preoccupazione era comunque una esperienza straordinaria, fino ad allora erano andate da Santarcangelo a S. Mauro a Rimini, 20 chilometri in tutto!
Scesero ad Ancona, la stazione dava sul porto semidistrutto dai bombardamenti e anche la città era un ammasso di macerie.porta portese 1

Raccontava zia Luisa che, piene di paura e di imbarazzo, posarono la loro valigia aperta, con le stoffe in vista,  sul marciapiede di una stradina dietro Piazza Roma …. Raccontava:
La gente che passava si fermava e guardava,  in silenzio.
Dopo pochi minuti si era formato un cerchio di persone che, in silenzio, ci guardavano e guardavano la nostra roba lì per terra… nessuno parlava…
Ho avuto paura. Anche la Guerrina mi guardava con gli occhi smarriti…
Ecco, adesso ci saltano addosso, ci portano via tutto, povere noi cosa abbiamo fatto!!
Poi la gente ha cominciato a parlare, a domandare da dove venivamo, quanto costava….
Noi avevamo paura, ma anche loro erano in difficoltà perché erano anni ormai che non si vedeva una bancarella o un mercato da queste parti ed erano ammutoliti, in fondo, per la sorpresa.

Alla sera  erano tornate a casa avendo venduto tutto, con i soldi per pagare il debito e un buon gruzzolo di guadagno.
Anzi: uno dei clienti aveva fatto a Luisa  e alla sua socia una proposta.
Perché non tornavano giù con dell’altra roba e, invece di fermarsi ad Ancona, non arrivavano fino ad una cittadina poco lontana, dove lui era sicuro di poterle aiutare a fare bene, a vendere tutto con un buon guadagno.

Il viaggio di ritorno fu allegrissimo, ma poi cominciarono a ragionare sulla cosa, Luisa voleva provare a tornare, la sua socia era molto perplessa..
In effetti non so i particolari, ma Luisa riprese la strada delle Marche, arrivò a Jesi dove le cose stavano proprio come aveva detto quel tizio: la gente aveva qualche soldo perché in fondo lì il  lavoro c’era e la campagna produceva nonostante la guerra, il fronte non aveva fatto grossi danni e la gente da anni ormai non aveva stoffe  da comprare.
Tornavano ogni volta dal Signor Conti a fare scorta e pagavano ormai col cuore più leggero, vedevano una prospettiva.

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Luisa si rese presto conto che  bisognava prendere una decisione, non si poteva fare le pendolari  in eterno per distanze così lunghe e in tempo di trasporti tanto precari. Cercò di convincere Guerrina a trasferirsi nella cittadina marchigiana e mettersi a girare i paesini attorno, fare i mercati, con un banco di tessuti. Guerrina aveva paura, non se la sentiva di lasciare il suo paese, i parenti,…e allora si separarono.

Luisa si sistemò in una stanza in subaffitto in cima a un palazzo buio e vecchio nel centro storico della cittadina nei pressi di Ancona (ho un ricordo vago del terrazzino dal quale mi affacciavo bambina  venuta a trovare la zia e vedevo un cortilino lungo lungo,  stretto e grigio) cominciò a girare i mercati.

Ebbe subito un gran successo perché la sua parlata romagnola, la sua simpatia, la sua comunicativa erano irresistibili per i marchigiani, naturalmente ritrosi e introversi.
E assieme alla simpatia la aiutava la furbizia innata (del resto la sua mamma aveva per soprannome “la faina”!) e una gran voglia di lavorare purché non si trattasse dei lavori domestici che odiava.
Non c’erano i mezzi e lei si procurava e pagava il passaggio sui camion che portavano parecchi ambulanti con le loro merci  caricati sul cassone all’aperto.

Freddo e fatica a stufo… ma col ritorno del marito, l’acquisto di un camioncino residuato bellico… la ripresa economica… aprì finalmente un negozio sul Corso, diventò una “signora” e benché – o forse proprio perché  – aveva conosciuto la miseria e la fame si godeva i lussi che si poteva permettere.

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Si comprò negozi, case, terreni, gioielli, pellicce, soprammobili pacchiani e costosi….
Andava alla stagione lirica a Verona facendosi portare dal suo amico tassista, a cui pagava albergo e teatro.. dicendo a casa che ci andava in treno!
Per decenni continuò, anche quando ormai la sua clientela richiedeva merce raffinata che doveva procurarsi altrove, a fornirsi dal famoso Signor Conti di Rimini perché non dimenticava mai chi l’aveva aiutata quando non aveva niente e le aveva dato fiducia.
La Guerrina mise su un negozio a S.Mauro.. non si spostò mai e non fece mai molta fortuna, non c’era tagliata.

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NB: le foto sono prese dal web fra quelle che più mi sono sembrate adatte al mio racconto. Grazie al web…